Eco Fashionista

Sulle collezioni “sostenibili” dei brand fast fashion

Conscious collection per la primavera? Avanguardia pura! In principio è stato H&M a creare una sorta di appuntamento annuale con il lancio della sua capsule collection “consapevole” all’inizio della primavera. Poi, come è lecito aspettarsi da un settore in cui l’originalità non è certo un valore fondante, tanti altri brand di abbigliamento low cost hanno iniziato a proporre collezioni “ecofriendly” nello stesso periodo dell’anno. Forse perché i tessuti primaverili e leggeri sono più “facili” da declinare in versione eco mantenendo prezzi accessibili? O magari è per le stampe floreali e verdeggianti (di nuovo: avanguardia pura!) che aiutano a rendere il tutto più convincente? Primavera o meno, credo sia il caso di fermarci un attimo a riflettere sul senso e sull’impatto di queste sedicenti collezioni sostenibili.

Tessuti ecofriendly = abiti sostenibili?

C’è una cosa che le accomuna tutte, ed è il focus posto esclusivamente sui materiali impiegati nella realizzazione di questi nuovi capi e accessori. Cotone organico, fibre naturali rigenerate, tessuti ottenuti da bottiglie di plastica post-consumo… Ottimi materiali, senza dubbio, ma è bene verificare le percentuali sull’etichetta del singolo capo perché non sempre rappresentano il 100% della composizione. In ogni caso, davvero basta cambiare i materiali per rendere sostenibile l’ennesima maglietta, vestito, paio di jeans sfornato dal marchio fast fashion di turno? È un primo passo, ma dietro quello che vediamo in vetrina c’è molto più che semplici tessuti.

Da dove arrivano questi vestiti?

Tessuti e materiali rappresentano solo una piccola parte della filiera produttiva che rende insostenibile e dannosa l’industria del fast fashion. Un primo aspetto, molto facile da verificare leggendo le etichette, è quello dei luoghi di produzione: gli stessi di tutte le altre collezioni, dalla Cina all’Europa dell’Est passando per India e Bangladesh. Stiamo dunque parlando di capi che hanno viaggiato per migliaia di kilometri prima di arrivare in vetrina o sulla soglia di casa nostra consegnati dal corriere. Aggiungendo l’impatto del trasporto aereo o via nave a quello dei tessuti ecofriendly, ecco che l’impronta ecologica della t-shirt in cotone bio diventa ben più pesante di quanto potesse sembrare a prima vista.

Chi ha prodotto le collezioni “sostenibili”?

I luoghi di produzione ci portano immediatamente ad un altro tema caldo del fast fashion, ovvero lo sfruttamento della manodopera. Per poter produrre vestiti al ritmo di 52 collezioni all’anno, conscious collection comprese, e a prezzi sempre più bassi, bisogna mettere in conto che il margine di ricavo sia fatto (anche) sui salari dei lavoratori che tagliano e cuciono quei tessuti per trasformarli nei vestiti che arriveranno sugli scaffali. Le condizioni di sfruttamento ed estrema povertà degli operai impiegati nelle fabbriche del fast fashion sono una realtà ben documentata da molti libri e documentari, tra cui il più conosciuto resta The True Cost.

Comprare, comprare, comprare…

Infine, rimane il fatto che queste collezioni sostenibili rappresentano una parte davvero minima dell’enorme produzione annuale dei brand. Una piccola parte, destinata però a contribuire ulteriormente al ricambio costante delle proposte in vetrina, alimentando il circolo vizioso degli acquisti compulsivi tipico del fast fashion – complice il battage pubblicitario che le accompagna.

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